A un mese dalla sua scomparsa, ripercorriamo insieme il percorso musicale di un’artista che ha lasciato un segno indelebile nella storia del pop contemporaneo

La morte prematura di un artista porta sempre con sé una sensazione di perdita per quello che potrebbe essere stato e quello che sarebbe stato creato se ciò non fosse avvenuto. È quello che è successo lo scorso 30 gennaio, quando è stata diffusa la notizia della morte di SOPHIE, avvenuta in seguito a una caduta accidentale.

La morte di SOPHIE ha colpito duramente i suoi ascoltatori, ma anche la comunità musicale in senso più ampio. Appare sempre più chiaro adesso come negli scorsi anni SOPHIE fosse diventata un’icona culturale, non solo per la sua musica, ma anche per ciò che ha rappresentato per i fan e gli artisti della comunità LGBTQIA+ 

Oltre a questo, si aggiunge il fatto che la sua carriera era in effetti per molti versi ancora agli inizi (ufficialmente abbiamo solo un album e una raccolta di singoli interamente usciti a suo nome), e la sua scomparsa ha tagliato prematuramente un potenziale artistico che rimarrà inespresso. Gran parte delle discussioni che si sono create attorno alla figura di SOPHIE e alla sua musica, infatti, riguardano l’inevitabile perdita che la sua morte porta con sé in relazione al ruolo che ha avuto nel far parte di una corrente musicale che ha provato, per la prima volta dopo anni di nostalgie e retro-manie, a re-immaginare il futuro, a raccontarlo e a creare quel senso di shock di cui Mark Fisher aveva individuato l’assenza in gran parte della musica del XXI secolo. SOPHIE è stata sicuramente un’artista che con la sua produzione ha messo in discussione il concetto di hauntologia per come l’ha descritta Fisher. Che la si voglia chiamare anti-hauntologia o corrente accelerazionista della musica elettronica, quello che è certo è che SOPHIE ha contribuito a portare all’interno del mainstream una ventata di aria fresca e innovativa. Soprattutto alla luce della sua scomparsa, è innegabile che la musica di SOPHIE abbia creato discorsi, aperto discussioni, lasciato un segno indelebile all’interno del panorama pop contemporaneo, apprezzata sia dal vasto pubblico che da ascoltatori più di nicchia.

Quello su cui vorrei porre l’attenzione è infatti il contributo alla musica pop che SOPHIE ha apportato con la sua produzione. SOPHIE è stata infatti un’artista che con il suo lavoro è riuscita a far emergere in modo molto chiaro la capacità della musica, e in particolare del pop mainstream, di raccontare e farsi specchio del presente. Il sound HD e la materialità delle sue produzioni sono una colonna sonora perfetta per i tempi che stiamo vivendo.

Originaria di Glasgow, con base a Los Angeles, SOPHIE, inizialmente nascosta dietro l’anonimato, esordisce nel 2013 con i singoli Nothing More to Say, e BIPP. Questi due singoli definiscono sin da subito quelle che diventeranno delle caratteristiche chiave del suo stile: la prima è una traccia house molto pop orientata al club, e la seconda un rally impazzito di synth iper-digitali, in cui una voce velocizzata (la sua?) invita l’ascoltatore a lasciarsi andare ed entrare nel suo mondo (However you feeling/I can make you feel better). BIPP è la traccia che ha avvicinato SOPHIE ad un pubblico più ampio, e con il senno di poi appare evidente come già all’inizio della sua carriera fosse molto consapevole di quello che stava facendo e della traiettoria del suo sound. I singoli usciti in quel periodo verranno poi raccolti nella compilation PRODUCT (2015).

Agli inizi della sua carriera ha collaborato con gli artisti della PC MUSIC, etichetta avant-pop nota  per esplorare sound simili già all’inizio del secondo decennio del 2000, e con cui nel 2014, insieme al fondatore A.G. Cook, ha partecipato al progetto HEY QT in qualità di co-produttrice. In HEY QT, l’artista e performer statunitense Hayden Frances Dunham ha prestato voce e corpo per la creazione di una popstar immaginaria nata per promuovere un Energy Drink fittizio. Il risultato era un video musicale prodotto per essere anche una pubblicità dell’ipotetica bevanda, in un progetto che giocava con l’estetica corporate al limite tra musica e opera d’arte.

HEY QT lavora su un immaginario ultra-pop, puntando sulla plastificazione dei suoni e l’estetica da brand. Non a caso, infatti, SOPHIE, in una delle prime interviste rilasciate, quando le viene chiesto di definire in quale genere la sua musica si classifichi, risponde “advertising”. Cosa che poi diventa vera a tutti gli effetti nel singolo successivo Lemonade, traccia poi utilizzata all’interno di un web spot di McDonald che pubblicizza, appunto, una limonata.

HEY QT e Lemonade sono degli ottimi esempi di come SOPHIE utilizzasse un’estetica hyper-pop per addentrarsi all’interno del mainstream, cosa che lei ha poi rivendicato in una conversazione con Sasha Geffen pubblicata su Vulture nel 2017: “An experimental idea doesn’t have to be separate from a mainstream context. The really exciting thing is when those two things are together. That’s where you can get real change”. La sua scelta di muoversi all’interno del mainstream era stata chiara e consapevole, dimostrando di essere un’artista che sapeva esattamente quello che stava facendo: “I think being completely authentic about the time you live in, is something that I would view as a career-long objective”. SOPHIE rinnega totalmente la tendenza delle nicchie culturali di chiudersi in sé stesse, abbracciando invece le estetiche del tardo capitalismo per farle sue ed arrivare ad un pubblico più ampio.

Nel periodo in cui la sua identità era ancora celata nell’anonimato, in gran parte della sua carriera è stata attiva come produttrice. Molti dei tratti più affascinanti della sua musica, infatti, possono essere ravvisati soprattutto nelle sue produzioni e collaborazioni con altri artisti. In queste, SOPHIE ha dimostrato di essere all’altezza delle sue ambizioni, muovendosi abilmente tra diversi generi e riuscendo sempre a far mantenere al suo sound una certa singolarità.

Esempio più noto ad oggi della sua carriera come produttrice è la collaborazione con Madonna in “Bitch I’m Madonna”, co-prodotta insieme a Diplo, ma i tratti peculiari del suo sound si possono notare chiaramente anche nelle sue incursioni nel rap, come ad esempio nelle tracce che ha prodotto per Gaika e Vince Staples. La sua collaborazione più interessante, a parer mio, rimane però il sodalizio stretto con Charlie XCX nel 2015, per cui produsse alcune tracce che andarono poi a comporre l’EP Vroom Vroom.

Vroom Vroom è anche il singolo che traina l’intero EP, in cui un intro composto da una bassline ghetto-house lascia spazio ad un beat trap iper-minimale, la cui consistenza si può toccare con mano. Vroom Vroom è una delle tracce in cui SOPHIE ha riscritto le regole del gioco, portando l’hyper-pop degli anni ’10 del 2000 ad un livello successivo. La materialità di questo sound ai tempi era quasi unica, portando qualcosa di nuovo all’interno del suono mainstream degli anni appena trascorsi.

L’essenza tattile delle sue produzioni è uno degli aspetti che meritano più attenzione. I beat di SOPHIE sono tutti caratterizzati da una materialità intrinseca che donano una certa tridimensionalità al suono. Il sapore metallico che possiamo sentire nella cassa di Vroom Vroom oppure nel suo singolo Hard è qualcosa che coinvolge direttamente i corpi degli ascoltatori, il tutto accompagnato da una dose di euforia che rendono queste tracce l’ideale per un rush di MDMA. Lyra Pramuk, che è una delle sue più grandi attuali estimatrici, ha descritto questo in una riflessione pubblicata su Pitchfork, dicendo “…Sophie understood that so well. That everything can be material. […] There’s this animism to it, like inanimate materials coming to life and doing things of they own accord”.

L’identità di SOPHIE esce allo scoperto solo nel 2017, quando pubblica il video di It’s Okay to Cry, il primo dei singoli che andrà poi a comporre il suo album. It’s Okay to Cry è una traccia sognante con cui presenta per la prima volta sé stessa al pubblico. Oltre ad essere il momento in cui il suo nome esce dall’anonimato e, dall’alone di mistero che permea la sua figura, diventa su carta la sua prima performance vocale pubblicata. Una performance vocale inizialmente semi-sussurrata, una morbida vibrazione che accompagna il brano fino al suo climax in cui diventa canto vero e proprio.

L’uscita di questo video non può dirsi casuale. Un anonimato durato qualche anno viene rotto con un video consistente in un primo piano fisso di una donna transgender. Nel 2018, lei stessa commenta che la presenza del suo corpo non è più qualcosa contro cui deve lottare ma uno strumento necessario, consapevole anche del potenziale comunicativo del medium audiovisivo. “The pop-music video is one of the most powerful communication tools we have. Most people have access to a phone, and you can click a video and absorb it in three minutes. If it’s potent enough, you can take in the message or have some sort of experience in multiple dimensions, the music with the image” dichiara in un’altra intervista. Un altro video infatti che anticipò l’uscita del suo album è stato Faceshopping, una escursione epilettica post-rave carica di significati riguardanti la costruzione dell’identità in tempi digitali (My face is the front to shop/my face is the real shop front/my face is the front to shop/I’m real when I shop my face).

Il linguaggio di SOPHIE, la voce, le tonalità e l’insieme delle componenti musicali che danno vita al suo lavoro crea una serie di significati molto importanti per la comunità trans e queer. L’eliminazione dei confini di genere in tutti i sistemi di comunicazioni coinvolti nella sua musica, è talmente centrale che le sue parole riguardanti questi temi non sono ufficialmente molte, fatta eccezione per alcune interviste in cui le viene chiesto esplicitamente di affrontarli. Del resto, credo che SOPHIE fosse molto abile nella nobile pratica di lasciar parlare l’arte per sé, cosa che presuppone una grande potenza comunicativa. Come ha notato di recente sempre Lyra Pramuk, è proprio lo stesso linguaggio di SOPHIE, i suoi significanti, che sono caratterizzati da una serie di elementi che cercano di muoversi oltre le tradizionali tonalità con cui la musica contemporanea è codificata culturalmente. Il sound design di SOPHIE cerca di andare oltre il temperamento equabile in cui l’ottava è divisa in dodici parti, “a musical embodiment of transness […] for many (BIPOC artists), escaping the 12-tone system is literally a way to Side-step cultural hegemony”.

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Oil of Every Pearl’s Un-Sides photoshoot, Art Direction: Eric Wrenn, Photography: Charlotte Wales

Il suo album di debutto, Oil of Every Pearl’s Un-Sides, viene pubblicato nel Giugno del 2018, ed è e rimarrà la testimonianza migliore dell’intelligenza creativa di SOPHIE. Accolto molto positivamente dalla critica internazionale, è un album che in solo nove tracce raccoglie perfettamente la varietà di sfumature del suo lavoro fino a quel momento. È un album in cui il pop viene toccato, modificato, diventando materia malleabile, intriso di futurismo, muovendosi tra post-rave, elettronica hi-tech e ambient. Le prime tre tracce dell’album sono, in ordine di uscita, i singoli che ha rilasciato prima della pubblicazione (It’s Okay to Cry, Ponyboy e Faceshopping), mentre quelle centrali, fra cliché reinterpretati in chiave futuristica (Immaterial girl) e sound design ultra HD (Pretending), accompagnano l’album fino al finale Whole new world/Pretend World.

L’utilizzo della voce che fa SOPHIE nella sua produzione, e in particolare in questo album, chiama in causa direttamente l’interazione tra umano e non-umano, inserendo la sua musica all’interno della cornice contemporanea di convivenza continua con le nuove tecnologie. La voce in musica è un campo d’azione a sé stante, intriso inevitabilmente di umano, e quando ad esso viene annessa una componente extra-umana, vengono creati nuovi orizzonti di senso. Nè è un esempio concreto l’ampio utilizzo dell’auto-tune che viene fatto nella maggior parte della musica rap contemporanea, che, come ha scritto Ivan Carozzi, “…ha successo e seduce perché evoca la realtà di un processo ancora oscuro, incerto, cioè il farsi digitale della nostra identità”. Allo stesso modo, la voce pitchata, modificata e trasformata di SOPHIE ci racconta molto dell’interazione tra umano e digitale nei termini in cui oggi interagiamo e negoziamo le nostre identità all’interno di uno spazio interamente virtuale.

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SOPHIE nel 2019 durante il Coachella Valley Music And Arts Festival in Indio, California
(Frazer Harrison/Getty Images for Coachella)

Whole new world/Pretend World, l’ultima traccia dell’album, può essere considerata la traccia di SOPHIE che rimarrà come pietra miliare del suo lavoro negli anni a venire. Nove minuti di caos post-rave in cui vengono mischiati umano ed extra-umano, estetico ed extra-estetico, in cui voce e suono si fanno veicolo di una meravigliosa sensazione di shock che è allo stesso tempo un invito ad abbracciare il nuovo mondo con uno sguardo utopico.

Se Fisher ha sottolineato una scomparsa del circuito tra sperimentale, avanguardistico e popolare, la musica di artisti come SOPHIE dimostra che questo circuito è vivo e tra di noi. Se intendiamo la musica pop come spazio simbolico della costruzione dell’identità individuale e collettiva, e se intendiamo la voce come strumento comprendente una varietà di significati e funzioni, ossia un medium capace di trasportare questi significati all’interno del tempo e del contesto in cui si trovano e di dargli un senso, SOPHIE è stata una stella la cui luce ha guidato il pop contemporaneo dentro nuove strade, all’interno dell’oggetto tanto oscuro quanto affascinante che chiamiamo presente.