Il designer che distrugge e ricrea: non solo recupero e upcycling, ma un vero inno alla libertà.

Simon Cracker crea, immagina e racconta. Nella sua arte c’è il sé stesso di oggi, che vive, soffre e si emoziona, c’è il Simone bambino, cresciuto con i nonni nelle campagne attorno a Cesena, ci sono la passione per il Giappone e la sua irrequietezza.

La spinta all’ecologia, la spontanea battaglia contro lo spreco, il rifiuto degli stereotipi della moda e la totale negligenza nei confronti delle etichette estetiche, sessuali, stagionali: tutto questo è Simon Cracker.

Sei sempre legato a livello sentimentale alle tue collezioni e alle tue creazioni, come alla S/S 2021 – “Alba”, dedicata a tua nonna?

Questo discorso parte dalla mia infanzia. Sono cresciuto con i miei nonni, me li sono vissuti tanto e ho sempre osservato la mia vita attraverso il loro filtro. Mia nonna, casalinga, mi viziava pazzamente, mio nonno faceva l’imbianchino ma a casa dipingeva quadri. Io adoravo andare a lavoro con lui, perché potevo girare per le case degli altri senza mai vederne i proprietari e immaginare chi fossero solo attraverso i loro oggetti.

Era un gioco per me e adesso continua attraverso le mie creazioni: prendo i tessuti e filati in stock che hanno già vissuto una vita propria e che andrebbero buttati, li reinterpreto e li riciclo. Ne consegue l’unicità dei capi che difficilmente risultano uno uguale all’altro, avendo origine da quantitativi limitati dello stesso materiale. Non è stato così per la collezione S/S 2021, che si è appunto chiamata “Alba“, come mia nonna. Ho fatto produrre nuovi tessuti con le stampe delle foto di mia nonna, della mia bisnonna, dei quadri che dipingeva mio nonno, e sentivo che in questo caso doveva essere così, era come ritornare tra le loro braccia

Io non sono affatto legato alle cose materiali ma le collezioni in sé sono proprio il mio sfogo e questo fa sì che siano molto importanti per me. Sono la parte di cui mi voglio liberare: cose belle, cose brutte, i ricordi, le difficoltà della mia vita, i traumi. Io uso la mia produzione come terapia, come metodo espressivo. A volte è piacevole rivedere queste cose, ma spesso è anche doloroso e non le guardo più volentieri.

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Credi che venga compreso questo valore comunicativo e introspettivo della tua produzione artistica o che sia una cosa totalmente tua che gli altri non percepiscono?

Non saprei. Credo in certi casi sia successo che qualcuno abbia compreso e che sia riuscito a vedere oltre al prodotto in sé. È vero anche che molte cose sono più evidenti ed esplicite, altre sono più sottintese e difficili da decifrare. Se delle t-shirt hanno un pattern con dei lividi, ad esempio, il messaggio è abbastanza chiaro, si parla di dolore e sofferenza.

Se prendi però la mia collezione con i peluches ed Hello Kitty, sembrava una semplice provocazione estetica, quando invece la riflessione che mi aveva ispirato era un pensiero sulla violenza contro le donne. Però non me la sono sentita di spiegarla, perché era una riflessione mia.

Da come ne parli, sembra che la tua visione di moda sia in realtà più arte che moda.

A dire il vero io non amo affatto il termine moda, non mi sento di appartenere a questo ambito. Mi sembra una cosa a scadenza, che si esaurisce in pochi mesi. Trendy, cool, glamour, io ho un problema serio con queste parole. Le mie creazioni non vogliono essere cool e poi non essere più cool tra un mese. Preferisco che ci siano dieci innamoramenti in meno ma che ce ne sia uno totalizzante, qualcuno che porti una parte di me nella sua vita attraverso un mio prodotto e che questo viva ancora e ancora, che venga regalato, riciclato, modificato, ma che continui a vivere.

Sentendoti così lontano da questo mondo mi chiedo, come è iniziato il tuo percorso nella moda?

All’inizio ero un po’ parassita in questo ambiente. Ho studiato grafica pubblicitaria, mi sono avvicinato alla moda iniziando a lavorare proprio come grafico per pattern e tessuti. Poi ho avuto modo di collaborare con il Polimoda di Firenze, con l’Osaka Bunka Fashion College, con la Central Saint Martins.

Lavorando con i tessuti ho avuto la fortuna di avere una visione a 360° della moda, passando da vari brand e tutti i loro stili e soprattutto ho iniziato a formare un mio gusto personale, con una competenza specifica sulle texture e le stampe. Lì ho iniziato ad amare i rilievi e gli effetti plastici, a sperimentare mixando colle, tessuti, glitter, piastrine, plastica, inchiostri. Ho creato così effetti incredibili di squame, gommature, consistenze wet spalmate, elementi che ancora oggi fanno parte del concept Simon Cracker

Come vivi i parametri in cui la moda è abituata ad essere incasellata? Mi riferisco all’aspetto stagionale, alla distinzione uomo/donna, al sizing

Non mi piacciono le limitazioni. Voglio creare cose che lascino libertà. Libertà è la parola chiave. Voglio che i miei capi possano vestire con un’unica taglia diverse tipologie di corpo e che permettano una vestibilità over che faccia sentire bene chi li indossa. Secondo me l’oversize permette di avere il controllo sul proprio corpo, sulla propria ombra, distorcendo così tanto la propria immagine da renderla altro da sé

L’upcycling è l’elemento più distintivo e riconosciuto dello stile Simon Cracker. I graffiti, gli occhi, la tua firma sono ormai il pattern signature dei tuoi capi. E’ un concept che ancora senti molto tuo?

In realtà per un po’ ho pensato di voler smettere con questo concetto perché ad un certo punto la gente pensava che io facessi solo vintage, ma la verità è che lo showroom me lo richiede poiché, soprattutto in Giappone, il mercato lo apprezza. Quindi anche ora una parte di collezione è l’upcycling. Penso che Simon Cracker debba essere tutto ciò che io sono: distruzione, ricostruzione, riciclo, capi nuovi.

I graffiti sono stati i miei sfoghi con cui personalizzare le rimanenze di stock e campionari che raccoglievo componendo un mio archivio. Ora li sto portando avanti, ma cercando di trovare formule diverse per poterli usare.

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Che mi dici degli slogan? Ho visto che ne hai fatto ricorso spesso recentemente, ricamati sui capi, sotto forma di illustrazione, riproposti in vari formati.

Sì ne ho usati diversi: Creativity is dead, No budget, BASTA MODA. Sono nati nel 2020, durante la quarantena, quando ho sofferto molto questa consapevolezza della sovrapproduzione. In quel momento storico sentivo che si era fermato tutto ma allo stesso tempo si era prodotto come negli altri anni. Mi sentivo soffocare da tutte queste cose, dalle cose degli altri. 

Se osservo le logiche di brand, provo una forte frustrazione nel vedere prodotti retail totalmente stravolti e distanti da ciò che si mostra in sfilata. Io credo sia proprio sbagliato, non mi adeguo a queste metodologie, agire in un’ottica totalmente proiettata alla vendita senza tenere in minima considerazione il concept, l’idea.

Mi dicevi che vendi molto in Giappone, hai un mercato interessante in Cina. Raccontami un po’ del tuo rapporto con l’Estremo Oriente.

Il Giappone mi ha sempre davvero molto ispirato, il kimono, lo stile, la tranquillità che contraddistingue i suoi abitanti ho sempre sentito una forte connessione con quella terra, ancora prima di andarci.

Per la Cina c’è da dire che è molto difficile capire cosa loro vogliano. La persona che ha investito in me è cinese di origini ma ha sempre vissuto a San Francisco e sono contento perché lei crede davvero nel mio progetto, riesce a trovare delle chiavi che funzionano bene ma mi lascia libertà nelle mie scelte imprescindibili come la produzione totalmente Made in Italy.

Con il mercato europeo è totalmente diverso, ho dovuto correggere delle collezioni perché quello che ho venduto ad Hong Kong non l’ho potuto vendere in occidente. In una visione più ampia, il mercato che colpisco di più è sicuramente quello orientale, questo lo avevamo già previsto.

Le tue sfilate hanno sempre una forte componente experience. Quanto ci tieni a questo aspetto?

Per me è importante che il concept venga rispettato in tutti gli aspetti della collezione. Durante la pandemia sono arrivato a fare la mia sfilata perfetta, proprio la S/S 2021. Ricreava gli spettacoli che facevo da piccolo con mia cugina nei campi, in cui le lenzuola erano il nostro sipario e la terra il nostro palco. Sono tornato in quelle campagne della mia infanzia e gli spettatori erano le mie zie sedute sulle sedie, proprio come quando giocavo da piccolo. Per motivi di sicurezza non potevo farla con il pubblico ma è stato magico.

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Domanda originale: Simon Cracker, il nome, da cosa ha avuto origine?

Tutti immaginano sia riferito ai cracker, che in effetti mi piacciono molto. Per cracker intendo il concetto che c’è in Giappone per tutto ciò che si mangia con il tè. Sono questo genere di pietanze generalmente croccanti, ma non solo. Contrasti di consistenza, di sapori dolci e salati…

Però fondamentalmente il significato originario era Simon the cracker, il distruttore, colui che prende delle cose inutili, le smantella e ne fa qualcosa di utile.

Puoi svelarci qualche segreto riguardo alla prossima collezione?

Fermo restando che non ho alcuna intenzione di far produrre nulla di nuovo, posso svelare che nel 2021 andrò a riprendere i miei vecchi archivi e creerò partendo da lì. I miei rotoli di tessuto delle vecchie collezioni si ripresenteranno in una veste nuova; sto cercando di tingerli, rovesciarli e ridipingerli… insomma non voglio comprare nemmeno un filo di cotone per questa collezione, perché le ho già queste cose.

Deve essere una sfida mia, se una cosa non dovesse funzionare la smonterò e rimonterò finché non ne uscirà qualcosa di interessante. Ed essendo una sfida mia, ci credo ancora di più.