Il racconto di un progetto creativo che si colloca tra moda e perfomance.
Parola al fashion stylist Francesco Casarotto.

La maschera è un oggetto antico quanto il mondo, eppure sono certa che se osservaste alcune delle maschere ritrovate nel 1983 nella grotta di Nahal Hemar, in Israele, sareste probabilmente d’accordo con me nel pensare che oltre ad avere molto a che fare con chi siamo oggi, hanno a che fare anche con chi saremo domani. Ho iniziato a riflettere sulla straordinarietà della storia di questo oggetto dopo aver parlato con Francesco Casarotto delle sue creazioni. Come ho detto a lui il giorno che l’ho intervistato, la cosa che più mi ha colpito delle sue maschere e mi ha spinto a contattarlo, oltre all’evidente maestranza sartoriale, è stata la sensazione di riconoscere in quelle immagini a cui lui ha dato forma qualcosa di profondamente familiare: un significato, direi, che mi ha fatto oscillare tra fascino e timore. 

Le maschere più antiche che conosciamo sono state realizzate novemila anni fa, tremila anni prima che gli esseri umani divenissero capaci di comunicare tramite la scrittura. Oggi ci sembra paradossale constatare come una versione così ‘obsoleta’ di noi stessi sia stata capace di cogliere certi aspetti dell’essere e di creare un oggetto inutile, ma eterno. Eppure, come forse con nessun altro oggetto indossabile, proprio in quella fase della nostra evoluzione, siamo riusciti a condensare e ad inserire dentro un’unica forma una quantità di significati e immaginari praticamente infiniti. Nel 2014, James Snyder motiva questo slancio creativo identificandolo come “uno dei primi barlumi di riflessione esistenziale”.

Da allora la maschera non ha mai smesso di influenzare la società e la maggior parte delle scene artistico-culturali (moda, arte e musica): è arcaica e allo stesso tempo contemporanea e futuristica. Il motivo della sua diffusione si lega alla sua capacità di rispondere ad una necessità che si è definita tramite il teatro: quella di creare una porta che unisce due dimensioni, di trovare un compromesso per svanire e allo stesso tempo amplificare la nostra essenza: rinunciando a noi, diventiamo altro.

Lo abbiamo sperimentato ampiamente durante la pandemia: la negazione parziale dei volti avvenuta a livello globale per mezzo di pochi centimetri di tessuto ha generato la nascita di una nuova e ingombrante rappresentazione dell’altro. Il paradossale destino del corpo sembra essere proprio questo: non può sfuggire alla sua forma iniziale senza andarne ad assumere un’altra. 

Perchè le maschere conservano questo potere? Perché ci legano ad altre dimensioni. Non sono mai servite per nasconderci, ma per essere guidati da energie più forti della nostra.

Animato da un profondo desiderio di ricerca personale, iniziato molti anni prima, nel 2020 Francesco Casarotto, Stylist e fashion consultant con in attivo collaborazioni con brand internazionali, decide di dedicarsi ad un progetto personale, Agglomerati, da cui prende vita la prima collezione di maschere realizzate artigianalmente, la ‘No Season Collection N°0/2021’.

Filamenti di lurex, collant, pelle e viti dorate, crochet, fili di lana, strass e fiori, fino ad arrivare a capelli, cerotti e piercing. Alla costruzione di questi agglomerati materici – ma come vedremo anche emotivi – si è non a caso immediatamente affiancata la costruzione di abiti (cappotti doppiopetto, completi camicia-pantalone, abiti a balze in pizzo o lunghi con paillettes multicolore) e di uno styling studiati nei minimi dettagli. Tutto questo con l’obiettivo di Casarotto di permettere a importanti personaggi generati dalla sua mente di poter finalmente esistere al di fuori di essere, manifestare la propria energia e trovare pace.

In Agglomerati la moda incontra la performance tramite un processo di ideazione e lavorazione artigianale che si slega da obblighi di produzione e vendita, perseguendo esclusivamente un obiettivo di ricerca personale che si riconosce nel design, nella cura per il dettaglio e nella ricerca del materiale.

Raccontandomi di te, vorrei partissi con qualcosa che pensi che non sia ancora emerso durante altre interviste.

Qualcosa deve pur rimanere nascosto (ride). Faccio lo Stylist da dieci anni e sono felicissimo del mio percorso e del mio lavoro, che non cambierei mai, ma la parte più “manuale” del mio lavoro si è inevitabilmente messa un po’ da parte e mi è sempre mancata. In tutte le cose che faccio sento il desiderio di “costruire”, e non mi riferisco a sovrapposizioni di tessuti ma alla trasformazione di questi in qualcosa di diverso.
(Interrompe un discorso e dice “Questo te lo dico più tardi!”)

Per raccontarti del progetto, è fondamentale parlarti della Dott.ssa Taverna, la mia analista, e dell’indagine introspettiva che ho affrontato con lei, parallelamente agli anni di lavoro. Come tutti, sono stato un teenager che ha vissuto le sue complessità e, per svariate ragioni, mi sono sempre confrontato con diversi psicologi. Ci viene insegnato leggere, scrivere, ma effettivamente nessuno ci educa alla comprensione di come funziona la nostra mente né tutti gli ostacoli che questa può metterci di fronte. Con la Dott.ssa siamo passati dal parlare di ciò che mi succedeva a un sistema di pensiero che andava più in profondità, ad una discussione a proposito degli ostacoli della mente, di certi “paletti” creati inizialmente per proteggerti ma che poi a distanza di tempo, quando i pericoli spariscono, possono diventare voci negative.

Un passo fondamentale con la Dott.ssa è stato identificare le voci interne che tutti noi sentiamo: un lavoro straordinario che ti mette nella posizione di osservare il tuo cervello mentre pensa a sé stesso. Assegnare un’identità a queste voci ha avviato il motore del progetto di Agglomerati con i primi nove pezzi. 

E come hanno iniziato a prendere forma matericamente le maschere?

Quando ho preteso che le maschere facessero emergere certi sentimenti, la cura estetica è entrata immediatamente a far parte del processo creativo e mi ha guidato nella scelta dei materiali. Paura, inquietudine, desiderio, dubbio: tutto quel che provavo si è sviluppato in una direzione concreta, ha dato forma ai protagonisti del mio progetto, alle maschere. All’inizio è nato come passatempo, come riempitivo delle giornate di quarantena. Poi ho collaborato alla sfilata di Barbara Bologna, durante la quale è stato proiettato l’abstract di un video in cui apparivano le maschere. Ha avuto un grande successo e sono arrivate le prime richieste di collaborazione.

Fino a quel momento non avevo ancora dato un’estetica finita alle maschere, per cui prima di farle di utilizzare da altri, ho voluto definire il tutto e per tutto con uno shooting. Ho pensato a cosa dovevano indossare le persone insieme alle maschere, quali abiti e accessori. Volevo trovare cose molto complesse, rispettando le identità di ognuna. Mi sono occupato della confezione della maggior parte degli abiti, dalle scarpe ai bijoux ed ho concluso il tutto con un lookbook col mio amico Omar Macchiavelli. La visione finale del progetto Agglomerati, devo dire, è stata definita dalla sua fotografia analogica, caratterizzata da un particolare tipo di atmosfera generata dal deterioramento chimico delle pellicole.

La cosa che mi piace sempre sottolineare è che il mio intento non è fare una cosa “moda”, ma nemmeno una anti-moda. Non sono né un artista né uno stylist, mi definisco un artigiano con una forte immaginazione e che lavora per rendere visibile quello che ha in testa. Il punto base è che tutte le maschere sono apertamente interpretabili

Cosa volevi dirmi prima quando ti sei interrotto?

Ah sì, che l’atto creativo e quindi l’atto manuale, è effettivamente una cura grandissima per la mente. Le mani si devono muovere in un certo modo… ad esempio per realizzare una maschera sono state avvolte su loro stesse circa una cinquantina di collant, stretti con un filo dorato e infine cuciti. È quasi un atto meditativo: ti concentri su qualcosa di schematico, regolare, e vai avanti con quello. Taverna mi suggeriva spesso di spostare l’attenzione dalla mente al corpo: quando lavoro alle maschere mi accorgo del passare del tempo solo quando inizio a provare un leggero mal di schiena.

Mi colpisce il fatto che quando parli utilizzi molte metafore. E in effetti la tua stessa esperienza è diventata un’immagine.

Sì… queste cose avrei potuto disegnarle, ma non era quel che volevo o che sentivo. Volevo realizzare qualcosa che può essere indossato e può diventare reale. Questo da vita ai miei personaggi molto più che se li avessi semplicemente raffigurati. Farli vivere è stato come eliminare i diversi “alien” che avevo in pancia… e adesso sono lì, racchiusi e custoditi in delle buste. Li sento ancora dentro di me, perchè c’è una ferita… ma sono riuscito a tirarli fuori.

La prima collezione di Agglomerati è uscita a Gennaio 2020. Ora che è un progetto, senti ancora l’urgenza di costruire le maschere o è diventato qualcos’altro?

No, ne ho assolutamente bisogno. In primis perché costruirle mi dà piacere. Lavorare sui set fotografico è gratificante ma si arriva sempre ad una conclusione che non è mai qualcosa di tangibile: la foto rimane virtuale. Fare le maschere invece, mi appaga, perché c’è una parte di sperimentazione di materiali che è incessante. Adesso sto cercando di capire le possibilità della resina e di tutte le prove che ho fatto ne ho salvata solo una perché il resto non è malleabile come desidero. Voglio assolutamente continuare, adesso più che fare uscire i personaggi che ho dentro mi piacerebbe crearne di nuovi.

agglomerati

Come si fa a crearne di nuovi? 

Sogno veramente tantissimo. Situazioni reali ma anche mondi paralleli. Ultimamente mi capita di sognare questa specie di apocalisse in cui ci sono sempre dei personaggi irreali. La mattina, quando mi sveglio, mi rimane la percezione di ciò che ho visto. Mi ricordo i colori, la silhouette e mi chiedo “come posso renderlo esteticamente un Agglomerato?” Ho dato questo nome al progetto proprio perchè indica sia il verbo “agglomerare“, cioè l’azione che un’estetica caratterizzata da ornamenti e ricami. Non sono mai stato un minimalista. 

Quando hai nominato la fase dell’adolescenza, ho pensato che quando si è molto giovani e inesperti alla vita, spesso ciò che di nuovo ti si presenta genera in noi spavento e insicurezza. Nei tuoi oggetti trovo una certa bellezza dell’inquietudine, qualcosa che nelle vecchie fiabe univa scenari mostruosi ad altri pieni di sfarzo. Ed è molto interessante che la tua “confusione” si sia trasformata in “autorialità”. Quando finisci una maschera come riesci a convivere con qualcosa che è giudicabile anche per la sua esteticità finale?

Le maschere finite restano comunque ‘presenti‘. Spesso le guardo, le tocco, torno sulle loro fotografie. Sono dei personaggi a cui sono molto legato e mi piace indossarle, guardarmi allo specchio, continuare a trovare nuovi modi per rappresentarle fotograficamente. A volte mi hanno chiesto perché non avessero una stagionalità. La risposta è che voglio convivere con loro almeno un anno e aver tempo per creare nuovi progetti per loro. Adesso sto mettendo a punto un film in cui i protagonisti sono proprio i Nove di Agglomerati… 

Comunque, una cosa che volevo dirti legata al sogno e al sentimento dell’angoscia… Spesso succede che la maggior parte della gente assegni a questo sentimento esclusivamente significati negativi. È come guardare un film che ti terrorizza ma che è talmente avvincente che alla fine non riesci a chiudere gli occhi. Il dolore, questa macrocategoria che comprende tantissime sfumature, ci viene insegnato come qualcosa da abbandonare il prima possibile. La Taverna, invece mi ha sempre insegnato a “restarci dentro” a scoprirlo, ad analizzarlo: sopportarlo e allo stesso tempo progredire.

agglomerati

È molto difficile arrivare ad una coscienza di sé di questo tipo. Per non parlare del dargli una rappresentazione efficace. Ho letto da altre interviste che intendi sviluppare una collezione all’anno, mantenere un approccio lento nella produzione delle maschere.

Sì, voglio ritagliarmi degli spazi piacevoli per farlo. Non voglio che diventi una catena di montaggio, un altro lavoro. Andrebbe a snaturare tutto il processo che mi ha portato ad Agglomerati. Il progetto richiede molta cura e attenzione, una sperimentazione continua di materiali e tecniche diverse. Per arrivare alla conclusione di una maschera possono volerci anche due mesi…

La grana porosa, tipica della pellicola analogica crea un rimando fortissimo con il tangibile. Mi sembra coerente con tutto il tuo processo. Si avverte l’integrità di un’idea che cerca le sue corrispondenze ovunque possa trovarle. 

Quando vedi interesse negli occhi di un altro, che ti aiuta a rappresentare il tuo progetto in modi che non pensavi, puoi arrivare a produzioni davvero funzionali. La maschera è un oggetto legato alla persona, perché o annulla l’identità di quella persona oppure le dona delle caratteristiche nuove. Il protagonista è sempre chi indossa, e la maschera è uno strumento per cui lui può fare o non fare determinate cose. In questo caso è esattamente il contrario: la persona non fa altro che prestare il proprio corpo, mentre la maschera utilizza il corpo per poter vivere. Senza abito, sarebbe stata una cosa a metà. Avrei dato una dimensione alla maschera, ma il personaggio non sarebbe stato concluso. Invece così può vivere.

Affinché la storia possa essere reale, ogni dettaglio deve esserlo, no?

Beh, ho fatto un sogno in cui presenziavo al mio funerale. E c’erano solo le maschere, i personaggi, ed era un’immagine stupenda. Come se ci fosse qualsiasi tipo di creatura vivente, umana ed extra-terrestre.

Erano maschere già costruite o quelle che hai ancora solo in mente?

In prima fila c’erano i Nove, ma ricordo vagamente anche altre non ancora ultimate.

Ciò che avverti è la compagnia di questi personaggi, non la persecuzione…

Sì…Il funerale era un momento come un altro in cui loro mi rendevano merito di qualcosa, come se mi dichiarassero che anche io ho avuto un ruolo importante per loro. 

Uno dei punti più interessanti su cui Agglomerati ci può far riflettere è che anche nell’epoca dove più come mai si discute di come proteggere le identità nel virtuale, la maschera “analogica” conservi perfettamente il suo potenziale comunicativo. La maschera non sembra appartenere veramente a nessuno se non a sé stessa e al desiderio di mimesi, nonostante debba una parte fondamentale del suo essere all’autore. Nemmeno lui, che l’ha progettata centimetro per centimetro, può nell’effettivo affermare quale sarà l’immagine e il significato che gli altri vedranno formarsi sul volto di chi la indossa. 

Francesco Casarotto, nato a Treviso, si è laureato in Fashion Design presso l’Università IUAV di Venezia. Con sede a Milano, lavora come stylist freelance e consulente di moda per brand e riviste internazionali.