Il performer anglo-italiano Beercock si racconta tra voce, corpo e rito portandoci dentro la sua musica fatta di linguaggi, poesia e rituali.

BEERCOCK è un cantante, musicista, poeta e attore di teatro. Nel 2017 pubblica il suo primo album “Wollow”, seguito da due anni di tour tra Italia e Regno Unito in radio, clubs, teatri e festivals. Da performer, lavora in vari collettivi teatrali anche come regista: le sue colonne sonore e i suoi spettacoli hanno debuttato in Italia al Santarcangelo Festival e Primavera dei Teatri. Con il secondo album “Human Rites”, uscito nel 2020, ha inizio una nuova fase artistica che parte dal concept “Voce. Corpo. Rito.“. Voce e corpo diventano quindi gli strumenti privilegiati per esplorare l’ancestrale, il rituale, il canto individuale e corale.

A novembre 2021 è uscito VoceCorpoRito per Bisso Edizioni, una raccolta di testi che attraverso il linguaggio poetico racconta il percorso di nascita e di sviluppo di Human Rites, non solo come disco ma come processo creativo e di narrazione tra Beercock e il mondo intorno a lui.

Lo scorso Agosto abbiamo avuto modo di intervistarlo e scoprire qualcosa in più del percorso artistico e talento di Sergio Beercock.

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Courtesy of BEERCOCK

Chi è Beercock?

Ciao! Sono io, lo sono sempre stato, sin da quando ero piccolo. È il mio cognome, è il mio vero cognome. Inizialmente era un bambino che sbatteva le mani sulla spalla di papà durante la ninna nanna a tempo. Poi gli piaceva disegnare tantissimo, poi ha scoperto l’heavy metal ed è diventato un batterista in adolescenza, poi ha scoperto che gli piaceva cantare ed ha cantato. Nel frattempo ha scoperto il teatro quando aveva 16/17 anni e ha cominciato a lavorarci e adesso è tutte queste cose. Ha smesso di dividersi fra il musicista, il teatrante, il performer, lo scrittore… sono tutto quello che faccio, quello che sento il bisogno di fare.

Quindi Beercock è passato dall’essere un individuo, all’essere una persona, quindi una presenza sociale. Perché mi piace pensare che quello che faccio è, non solo esprimermi e fare l’artista, ma siccome mi guardo molto intorno; frequento le persone, frequento tanto le persone fuori dall’ambito artistico, lavoro molto nel sociale con l’immigrazione, con l’infanzia, mi piace pensare che quello che io poi porto su un palcoscenico è quello che io mi tiro dalla mia vita sociale, della mia vita personale. E  quando intendo una vita sociale non intendo vita mondana, con quella ho ancora qualche difficoltà dopo il primo lockdown. Quindi si potrebbe dire nel marasma di cose che mi piace fare, e che sento di dover fare, è venuto fuori che Beercock è un performer musicale e teatrale.

Perché hai scelto di cantare in inglese e soprattutto perché hai scelto di fare questo disco interamente legato a te in tutti i sensi?

Ho scelto di cantare in inglese perché in realtà non l’ho scelto. Sono cresciuto con la musica anglofona avendo il papà inglese che mi ha cresciuto a pane e Stevie Wonder. Tutta musica ascoltata in macchina e in salotto mentre correvo sul tappeto. Quindi per forza di cose canto in inglese, perché la musica dalla bocca, dal corpo mi esce così, quella è la musica del canto per me. Sebbene con gli anni ho cominciato ad approcciarmi anche ad altre lingue, poco all’italiano istituzionale, molto all’italiano regionale, al siciliano, sebbene non scriva in siciliano, allo spagnolo sud americano perché mi piace ascoltarlo e mi emoziona molto anche cantarlo, sebbene non lo parli. E quindi la scelta dell’inglese è semplicemente un progresso naturale dell’ascolto, dell’assorbimento; l’elaborazione e poi l’espressione… il tirare fuori.

Poi io dico sempre che non canto, io sono cantato a mia volta da qualcosa che mi attraversa, e quella lingua è l’inglese. Perché fare un disco così? Dici tu legato a me. In realtà non è legato propriamente a me, o meglio, è un disco che ho suonato tutto io, quasi completamente col mio corpo e con la voce. I beat, i cori, sono tutti fatti completamente con i campionamenti del mio corpo, se non addirittura suonati live. Quindi si, potrebbe suonare autoreferenziale come approccio, però tutto quello che scrivo e che suono lo penso sempre nella moltitudine. E un disco del genere che noi abbiamo scelto, forse per profondo senso di solitudine e per un bisogno di rendere comunitaria questa sensazione.

Avrei potuto fare questo disco con un coro reale, avrei potuto fare questo disco con dei body percussionist, dei percussionisti del corpo, ma ero solo. In sala di registrazione, con la mascherina. Quindi ho detto: “Ok. Dobbiamo trovare il modo di moltiplicare questo Sergio all’infinito e rendere un coro di Sergio che in maniera astratta possa rappresentare un coro di persone.
Quanto sarebbe bello poterlo fare con un coro di persone?”, quindi ho fatto di necessità virtù, nient’altro.

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Courtesy of BEERCOCK

Di conseguenza, dopo queste scelte nasce Human Rites. A parte questo bisogno di dover cercare la comunità nell’essere da solo per delle motivazioni indipendenti dalla tua scelta, ma imposte purtroppo da un’emergenza che nessuno di noi si aspettava, cosa è cambiato nel tuo approccio a livello di scrittura e ricerca sonora? Perché facendo un lavoro interamente legato a trovare i suoni sul tuo corpo hai sicuramente fatto un lavoro diverso rispetto il tuo primo disco.

Sì. Ho tolto. Rispetto al primo disco e rispetto a come ho in genere lavorato con la musica, ho smesso di giudicarmi e di giudicare anche esteticamente il mio corpo. Nei confronti del mio corpo ho avuto sempre delle riserve, chissà per quale lontanissimo trauma dell’adolescenza. Sta di fatto che ho pensato che in un periodo del genere avevo solo e soltanto me stesso, non potevo accedere a tutti gli strumenti e a tutte le cose come mi sarebbe piaciuto accedere e allo stesso tempo mi piaceva pensare che era arrivato il momento di fidarmi di me stesso come attore anche. Di non pensare che servano le luci, le grandi scenografie, un palco enorme, una band di nove elementi.

L’idea era quella di avere qualcosa da dire, un’urgenza quasi escatologica, dovevo tirarla fuori questa cosa. Queste cose da dire che tenevo da tantissimo tempo, ed eravamo pronti a fare questo disco e poi la calamità mondiale. E volevo, avevo un bisogno tremendo delle persone, ero pronto di nuovo a toccarle. E quindi cazzo facciamolo, e facciamolo senza niente. Un rito totalmente umano, completamente e assolutamente umano.

Che non ha bisogno dell’artificio, del fuoco d’artificio… non ha bisogno della pittura, della grafica, del computer non ha bisogno di niente. Ha bisogno solo di un uomo che ha qualcosa da dire e di persone che gliele sentano dire al posto suo… che poi questo è il teatro. Io attraverso uno spazio, vi agisco dentro al posto vostro che lo guardate fare. È una forma di specchio, una forma di martirio direbbero anche degli studiosi, però un martirio molto luminoso. Quindi sebbene io non sia uno spirituale, un religioso, mi piace pensare, mi aiuta e mi fa benissimo pensare, che questa disciplina e questo metodo possa essere il modo più concreto di accedere al corpo degli altri.

Quali sono i progetti futuri e quale sarà l’evoluzione di Human Rites?

Human Rites è evoluto, è fiorito oltre il disco, già quando è uscito. Perché per mia enorme fortuna, e anche per scelta del progetto Beercock, e dell’identità del mio progetto e quindi della mia persona, è subito diventato qualcos’altro. Era già chiaro sin dall’inizio che non sarebbe stato un disco da portare in giro con i concerti, sebbene si possa fare. Potrebbe essere un tradizionalissimo concerto di musica elettronica campionata dal vivo. Ma mi annoia pensare a un concerto canonico. Mi piace pensare sempre di spingere le barriere, di oltrepassarle, di inciamparvi, sbattere la faccia e sanguinare anche. Ma va bene così, mi eccita, mi accende, mi tiene sempre vivo, il terrore di fare qualcosa che possa andare storto.

Di conseguenza Human Rites non è più un disco, ma è diventato un modo di fare le cose. Un modo di comporre la musica in scena per altri spettacoli, non solo per i miei. Spesso mi sto trovando ad utilizzare i miei macchinari di campionamento dal vivo per trasformare in musica i suoni e gesti che gli attori fanno in scena; quindi se arriva un clap, arriva una nota, una voce, un urlo, tutto entra dentro il meccanismo della loop e diventa un beat, un coro… un coro in senso teatrale. Quindi posso dire che Human Rites, anche per via del concept che lo fa nascere, cioè “Voce, Corpo, Rito”, è diventato ripeto un modo di fare le cose.

Quindi i progetti futuri e i progetti presenti sono fondamentalmente: spettacoli teatrali per i quali io mi occupo delle colonne sonore dal vivo, che io compongo insieme agli attori di volta in volta. Addirittura in alcuni spettacoli lo facciamo letteralmente di volta in volta, non prepariamo nulla prima, non mando campionamenti. Facciamo tutto quanto improvvisato dal vivo. I prossimi progetti a breve termine saranno: una performance di Human Rites, l’uscita di un libro che si chiamerà: “Voce, Corpo, Rito”, sul modo in cui ho fatto l’album. Ci saranno pensieri… è fondamentalmente una raccolta di poesie; un lungo poema che ha il bisogno di collettività come tema.

Poi tutta una serie di spettacoli teatrali e di produzioni italiane ed estere che stanno adottando Human Rites come modo di fare musica in scena.