Il Mito del CiucciaNebbia di Gaia D’Arrigo è un progetto artistico stratificato e multifase. Una ricerca al contempo analitica e intiuitivo-creativa – art-based – che affronta un problema contemporaneo, urgente e doloroso: l’avvelenamento dell’ambiente in cui viviamo, di cui siamo parte e che abbiamo creato. 

Gaia fonda la sua sperimentazione con i materiali – proveniente dagli studi in design del prodotto – su una forte componente operativa e metodica, che le consente di stabilire legami tra luoghi e attivare le tracce del passato. Osserva le superfici e lavora sulla stratificazione, sull’accumulo di materia, ne raccoglie campioni per mappare la città e creare un archivio che racconti una storia. Lo fa restando letteralmente “a contatto con il problema”, e alla fine è in grado di personificare la sua città vestendone l’aria – o ricreando e dando vita al tessuto contaminato dei suoi abitanti. Ci ricorda la concretezza della contaminazione presente vestendo quella del passato. 

Gaia D'Arrigo Il Mito del CiucciaNebbia
Frame del video CIUCCIANEBBIA di Gaia D’Arrigo; video completo su https://vimeo.com/761652376

Mettere una maschera e indossare un costume sono riti di accesso al potenziale immaginativo incarnato del teatro e al carattere anticipatorio della performance, aspetti fondamentali di pratiche artistiche critiche e speculative. Proprio in questa dimensione corporea irriducibile, attivata dall’epidermide artificiale e dalla ritrovata simbologia delle “maschere” grottesche, risiede il legame tra la natura intima, catartica e terapeutica del lavoro e il suo aspetto politico. Il CiucciaNebbia è infatti un’indagine situata sulla spaziotempomaterializzazione dell’inquinamento che si muove verso l’universale: abbraccia un processo di coscientizzazione ecologica e messa in discussione dei binarismi e dei confini antropocentrici che limitano i nostri sistemi etici. 

Diventare il CiucciaNebbia, più che raccontarne la storia e immaginarne il finale, è un’affermazione critica senza ambiguità sull’inquinamento che apre una crepa nel pensiero egemonico e sbircia al di là: cosa accade quando si accoglie sulla propria pelle l’interrelazione tra l’esistente? Cosa comporta assumersi il ruolo di creatura ibrida, incarnare una serie di relazioni e identificarsi nel proprio ambiente quando questo è tossico?

Il CiucciaNebbia è stato realizzato da Gaia come progetto di laurea alla Design Academy di Eindhoven dove è stato esposto al Graduation Show durante la Dutch Design Week del 2022. Fino al 10 Settembre 2023 è possibile vedere il Ciuccianebbia all’interno di Italy: A New Collective Landscape, presso l’ADI di Milano. Mostra dedicata ai lavori selezionati di giovani designer under35, che esplorano le problematiche del contemporaneo con le sue continue trasformazioni ecologiche e sociali.

A dicembre 2022 ci siamo incontrate per parlarne:

Che ruolo ha avuto il mito che sta nel titolo di questo progetto?

Il progetto lavora sempre sulla stratificazione di livelli diversi, come quelli dell’inquinamento o del corpo, ma anche di significato. Mi interessava indagare l’immaginario collettivo, i “miti” che ci siamo creati e che hanno portato al problema dell’inquinamento, ma anche il mito che ci porta a credere di essere diversi dalla creatura che è emersa nel lavoro. Ho voluto interrogare la barriera, ideologica e, appunto, mitizzata, tra il nostro corpo umano e l’ambiente circostante. Mi riferisco al mito anche in quanto storia, nell’ambito della narrativa del progetto, e ho voluto quindi inserire la parola nel titolo per caratterizzare lo storytelling di questa creatura che emerge tra i palazzi, l’inquinamento e il milanese

Nel testo che accompagna il tuo lavoro e ne espone la ricerca scrivi: «pollution is used as an investigative lens, a mirror and an archive». Puoi spiegarmi che ruolo hanno avuto questi tre concetti?

Quando ho iniziato a interrogare gli strati dell’inquinamento e del significato di questo fenomeno, il mio intento era quello di farlo parlare. Mi riferisco anche alle parole Jorge Otero, architetto e artista, che disse in un’ intervista che voleva che “l’inquinamento raccontasse la propria storia”. Allora ho iniziato ad andare in giro per la città, a vedere in che punti e in quali zone l’inquinamento si stratifica, quali di queste vengono pulite e quali no, che tipo di quartieri sono. In questo senso l’ho utilizzato come lente per guardare la città – ho osservato lo sviluppo del fenomeno per capire Milano e le interazioni tra la sua geografia e il fenomeno stesso, perché tutt interagiamo con l’inquinamento, ma lo facciamo in modo diverso: per chi abita in uno di quei sottopassi dove sono andata a prendere alcuni campioni, la relazione non è la stessa di chi abita in una zona centrale.

Queste polveri sono prodotte dalle nostre attività, non solo quelle strettamente industriali, quindi il loro andamento ci riflette, funziona come uno specchio. Per quanto mi riguarda, è sempre un po’ strano che questa materia – che è anche un campanello di allarme – venga rimossa dai palazzi per seguire l’agenda dell’immagine della città. Forse sarebbe più proficuo abbracciare la propria tossicità piuttosto che relegarla nei posti meno visibili. Anche perché gli abitanti la riflettono in ogni caso: mi ha sempre fatto senso pensare che l’inquinamento agisce a livello neurologico creando ansia e depressione. Se ti immagini il milanese tipo, che riflette in qualche modo questi sintomi, cosa è la causa di cosa? è un circolo vizioso.

Poi ho iniziato a raccoglierlo e a mappare la città utilizzando questo materiale. Ho voluto ragionare sulla possibilità di creare un archivio “vivo” spazio-temporale perché questi strati di inquinamento sono materia e quindi fonte di informazione. Milioni di particelle che raccontano: ripulire la strada è un po’ come ripulire una storia non voluta.

Questa fase del tuo lavoro è sperimentale e metodica, vorrei approfondire la tecnica che hai usato per costruire l’archivio e le fasi del lavoro che sono venute a seguire, tra cui la costruzione delle maschere che danno vita al personaggio.

La sperimentazione con i materiali è sempre stata una mia propensione e quella del latex è una tecnica che ho scoperto tramite l’artista Jorge Otero Pailos , di cui ti accennavo, che riproduce intere facciate di edifici. Originariamente viene utilizzata nell’ambito del restauro e pulizia dei beni culturali spalmando del latex liquido sui monumenti per estrarre polveri sottili e ciò che si accumula sulle superfici. Io ho poi utilizzato i campioni raccolti da edifici e infrastrutture urbane per costruire la mappa e l’archivio di cui parlavamo. Il resto è stato divertentissimo, perché dopo averli scannerizzati e archiviati li ho messi direttamente sul mio corpo. Sono stata seduta per ore al tavolo di casa mia, in Olanda, con indosso una tutina su cui i miei coinquilin appiccicavano i pezzi usando altro latex, con vicino una stufetta sperando che si asciugasse in fretta. La tuta ha la zip e si può reindossare – anche se il latex si restringe un po’ – e i piedi sono calzini sportivi a cui ho fatto una speciale pedicure!

Le maschere sono un po’ una mia ossessione, al di là del loro valore strumentale edilizio, le ho sempre osservate per la loro funzione apotropaica, di protezione e allontanamento degli spiriti maligni. Mi interessava il valore simbolico che si attribuisce a questa materia e i suoi benefici per le persone. Milano, insieme ad altri centri pugliesi, è una delle città con più maschere di questo tipo. Per me sono diventate sentinelle, guardiani che osservano dall’alto i cambiamenti della città. Allora il ciuccianebbia assume queste sembianze demoniache, come se fosse il volto dei palazzi. 

Gaia D'Arrigo Il Mito del CiucciaNebbia
Frame del video CIUCCIANEBBIA di Gaia D’Arrigo; video completo su https://vimeo.com/761652376
Hai avuto la possibilità di analizzare i campioni raccolti? Mi puoi parlare del Future Material Bank?

No, ma sarebbe molto bello: mi piacerebbe continuare con questo progetto che è sia ricerca analitica che ricerca intuitiva-creativa. E mi piacerebbe molto collaborare con qualcun* per vedere cosa c’è effettivamente nei campioni. 

Future Material Bank è una gigantesca raccolta di progetti su materiali, inizialmente concentrata su bio-materiali. Il mio lavoro si inserisce più nell’ottica di una riflessione sulla contestualizzazione e la narrativa del materiale. L’inquinamento è stato inserito non tanto perché io voglia creare un materiale con l’inquinamento ma appunto per proporlo come lente investigativa e come archivio di un problema ecologico. 

Gaia D'Arrigo Il Mito del CiucciaNebbia
Foto di Gaia D’Arrigo
Vorrei parlare un po’ del contesto dove hai sviluppato questo progetto – la Design Academy Eindhoven – e dell’influenza che ha avuto. Questo istituto, scrive Leonardo Caffo, “ha partecipato all’istituzionalizzazione di un pensiero radicale, ibrido tra filosofia e progettualità fattiva, che ha contribuito al progressivo spostamento del design dal prodotto al progetto speculativo“. Tu come hai vissuto e dove ti posizione rispetto a questa natura ibrida?

A livello accademico la DAE promuove l’interdisciplinarietà tra ricerca, arte e design, e la collaborazione tra diversi campi del sapere. In università più tradizionali di design del prodotto alcune domande non sarebbero state neanche prese in considerazione. Sicuramente incentiva la persone a vedere il design come pratica ibrida. Mi ricordo che nella descrizione del mio corso di studi in Social Design, la direttrice Maria Otero Verzier invitava a riflettere sul ruolo del design nelle problematiche contemporanee, più che sulla ricerca di soluzioni dirette. E poi quello che fa questa università, che la rende davvero ibrida, è mettere insieme persone provenienti da tutti i campi: c’è chi arriva dalla performance, chi dai gender o social studies, chi dal prodotto o dalla grafica. Ho imparato tantissimo dai miei amici: è chiaro che se io venivo dal design del prodotto e dalla sperimentazione con i materiali ho poi assorbito la performatività e l’uso del corpo, umano e non, che veniva promossa. 

Il CiucciaNebbia è il tuo progetto di laurea ed è quindi stato esposto al Graduation Show che la DAE organizza durante la Design Week olandese. Come hai scelto gli spazi espositivi e in che modo si è sviluppato il progetto in questa occasione? più in generale, secondo te che influenza (avrei dovuto dire “ruolo”) ha avuto il contenitore della tesi di laurea?

Gli spazi ci erano stati assegnati, si trattava del seminterrato di un garage. E’ stato molto divertente perché una mia amica aveva fatto un progetto sulla polvere: ha lavorato un anno in un laboratorio di microchip, dove puliva queste stanze che devono essere asettiche, e parte della sua installazione alla mostra era un sensore che captava le polveri sottili nell’aria. A quanto pare siamo state dieci giorni nel seminterrato del garage con una concentrazione di polveri sottili undici volte superiore al livello consentito, accettabile per gli standard sanitari. Dal punto di vista curatoriale ha funzionato il contrasto tra il suo lavoro sulla pulizia e il mio, sporchissimo.

Tornando al progetto, il video, per esempio, aveva il ruolo di ricontestualizzare il CiucciaNebbia nel suo ambiente generativo, quindi la sua produzione è dovuta anche al dover riportare in Olanda il lavoro. Magari se fosse stato a Milano avrei fatto un live stream o una performance urbana. A questo proposito, mi ricordo che un curatore è venuto da me e mi ha detto che questo tipo di progetto ha sempre più successo all’estero rispetto al luogo di cui trattano, un po’ come se venisse esotizzato. Però questo non è il mio scopo, visto che è stata una ricerca situata dev’essere riportata qua. Anche se ho usato un linguaggio più digeribile, si tratta comunque di uno statement critico a un sistema di cui comunque il design è parte e vorrei esporlo alla Design Week di Milano. 

Per l’installazione ho scelto elementi urbani come le impalcature, in questo caso pensando al duomo che è in costante stato di restauro, di pulizia, perché tanto se continuiamo a fare le stesse cose continueremo anche a produrre questa materia. Mi piaceva l’idea di richiamare queste strutture urbane simbiotiche all’architettura, così come i tubi di scappamento delle macchine assemblati alle maschere, a loro volta diventate delle creature. 

Ho voluto immaginare un’installazione che fosse un fictional design ma anche realtà. Un tentativo di sfidare i limiti tra ciò che è vero e ciò che è considerato falso, e quindi utilizzare un personaggio quasi assurdo, ma per far vedere un’assurdità che è già lì – come il fatto di vivere in un ambiente completamente tossico, in tutti i sensi possibili immaginabili, ma promosso a livello culturale perché è “figo” -.

Gaia D'Arrigo Il Mito del CiucciaNebbia
Frame del video CIUCCIANEBBIA di Gaia D’Arrigo; video completo su https://vimeo.com/761652376
Per chiudere vorrei tornare al concetto di specchio. Chi è il milanese che trovi riflesso? E soprattutto, come ti sei sentita – tu – rispecchiandoti in questo fenomeno?

Lo è chiunque vive a Milano e ne respira l’aria. La produttività di Milano è certamente parte del suo mito, e questo è anche un paradosso. La città si presenta come progressista, che guarda al futuro… però poi tutte queste attività si riflettono sui livelli di inquinamento. Il milanese è l’inquinamento. Milano, essendo sempre al passo coi tempi, fal del greenwashing parte della propria identità, e noi finiamo per dimenticarci che è una delle città più inquinate d’Europa. C’è un costante tentativo di nascondere questo fenomeno e di cancellarne l’aspetto “fisico”, materiale. Il progetto ha l’intenzione di ribaltare queste parti: cioè di mostrare l’inquinamento che è lì, e non c’è albero che tenga, non c’è tecnologia che assorba queste particelle, perché cmq si riproduce, perché viene da questo mito del progresso, dall’estrazione esaustiva di risorse. E anche del milanese.

Io mi sono sentita intossicata, ho iniziato questo progetto proprio per una questione personale. In un certo senso ha fatto anche molto ridere, ti racconto. All’inizio dell’anno accademico ho seguito un corso di alchimia in cui si trattava anche di Jung, una sorta di approccio psicologico all’alchimia. Qui ho sentito l’espressione participation mystique, che ha una storia di violenza coloniale alle spalle perché veniva usata per riferirsi alle tribù indigene che proiettavano parte della propria identità con l’ambiente a loro circostante. Questo immaginarsi un tutt’uno con i fiumi e gli elementi naturali era ovviamente motivo di delegittimazione da parte dei colonizzatori che sostenevano la supremazia dell’uomo sopra alla natura. Analogamente, il vaso alchemico – o aludel – è il luogo dove avvengono le reazioni tra i materiali ma è anche il cosmo e l’alchimista, che mentre trasmuta i metalli vili in oro attiva un processo psicologico di identificazione con la materia. Allora io mi sono chiesta: con che materia mi identifico io? Ho iniziato a interrogarmi su che tipo di metalli ci fossero nell’aria di Milano: c’è il nichel, per esempio, che è un metallo a cui io sono allergica. L’idea di essere allergica all’aria di milano – a cui siamo tutti allergici in qualche modo –  stranisce e ha reso quest’indagine sul fenomeno una cosa personale, quasi catartica. Per me riguardava anche capire l’origine dell’intossicazione che sentivo quando ero qui, che era anche la pressione lavorativa, della città, della società capitalista in generale. L’identificazione con questa creatura è stato un processo di guarigione. Un tentativo di non alienarmi da questo fenomeno, di identificarmi con esso per cercare di venirne a capo, o meglio, anche solo un modo per ritagliarmi un’opinione su questa cosa invece che essere completamente passiva. 

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Frame del video CIUCCIANEBBIA di Gaia D’Arrigo; video completo su https://vimeo.com/761652376
Un po’ come scavare nell’inconscio collettivo per far riemergere dei rimossi, un processo che pone delle questioni più che dare delle risposte.

Sì, infatti immaginarsi come creature ibride può portare a delle conseguenze positive… punto di domanda? Non lo so, io credo di sì, che sia meglio identificarsi che non alienarsi con dei problemi ecologici, che sono simultaneamente sociali, molto connessi in questo caso. Secondo me creerebbe consapevolezza nei riguardi dell’ambiente urbano in cui viviamo, e vedersi parte di esso potrebbe aprire un nuovo modo di relazionarvisi, perché è come se lo stessi facendo a te stesso.