Quattro studi dal vero alla maniera di Domenico Gnoli, è il titolo di uno dei saggi più belli di Calvino che raccoglie quattro brevi scritti su quattro quadri di Gnoli che ritraggono: una scarpa da donna, un bottone, un collo di camicia da uomo, un guanciale.
Ognuno di questi “semplici” oggetti dipinti sono in realtà rappresentati su tela come fossero enormi dettagli, monumenti sconcertanti, come se Gnoli con una lente di ingrandimento avesse scelto cosa farci guardare.
Avrebbe potuto benissimo completare il lavoro inserendo la presenza umana, disegnando ad esempio non solo una scarpa di una donna ma anche il collo del piede, la gamba, la presenza umana che la indossa.
Ogni singolo elemento viene “lasciato vivere” sulle opere pittoriche di Gnoli e in quelle scritte di Calvino, quel dettaglio su cui ci si focalizza è considerato – parafrasando Musil – come un’abitudine del pensiero e un atteggiamento di vita che fa in modo che la sua forza esemplare influisca su tutto il resto.
Questi oggetti bastano a loro stessi, sono indipendenti, vivi, ma soprattutto sia Gnoli che Calvino li propongono sotto una nuova luce. Entrambi, ci invitano a ripensare la nostra realtà quotidiana, lavorando per addizione di valore, ad associare persino ad un ricamo su una tovaglia un valore che non le è proprio.
Pensiamo alla camicia da uomo di Gnoli che, nel suo essere oggetto e al contempo spazio definito, possiede una autonomia geometrica.
“La camicia non solo non è più un indumento, diventa persino uno spazio, un luogo in cui tracciare linee e assiomi. La camicia sfugge a qualsiasi metodo comparativo, non somiglia a niente, per cui non resta che definirla come una tavola, secondo un linguaggio apparentemente sterile: quello geometrico.”
Nel testo di Calvino la camicia è definita come: “l’anfiteatro come un bassissimo tronco di cilindro inscritto entro un tronco di cono di forma irregolare (forse a base ellittica))».Il letto, il colletto, la sedia e più in generale i lavori di Gnoli possono dirsi opere precise e definite, che rispondono perfettamente ai tre criteri di Esattezza esposti da Calvino:”1. Realizzare un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2. Evocare immagini visuali nitide, incisive, memorabili; 3. Generare linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”.
Gli oggetti, coincisi e ben descritti oramai non sono più quelli che erano prima di essere rappresentati. Sono diventati come i semiofori di Pomian: delle cose svuotate
della loro funzione primaria che acquisiscono una nuova utilità e un nuovo valore. Franz Steiner nella Teorie delle Economie sosteneva l’entità incerta di questi semiofori, lontani dalla praticità, dalla tangibilità. “Più significato c’è in una cosa, meno sarà utile”. Ciò ci riporta al sistema gerarchico di matrice verticale per cui in alto troviamo il Dio, il potente e alla base della piramide l’umile, o la comunità “semplice” che ha a che fare con la realtà quotidiana, col mondo vero. Più ci si allontana da Dio o da qualsivoglia figura di potere più si va verso il visibile. Più si va in alto, più si ha semiofori intorno. Si cerca in ogni modo in Pomian di definire questi semivuoti come padroni del campo dell’invisibile, dell’immaginario, di ciò che è “infinitamente vasto”.
Ed è interessante come proprio da un oggetto, da una cosa, da un dettaglio preciso e delineato che rappresenta il massimo della concretezza si possa parlare di astrazione. Come può qualcosa di specifico essere la chiave di volta per la comprensione dell’indefinito?Leopardi ne sapeva qualcosa, eppure il poeta dell’infinito sosteneva di trattare questo tema del vago a 360 gradi senza partire da un oggetto della realtà non sensibile. Tuttavia, come ci dimostra Calvino sempre parlando di esattezza, Leopardi fa il contrario di quello che dice. Il poeta di Recanati formula in realtà una descrizione accurata e precisa; l’autore non può fare a meno di avvalersi dell’esattezza per delineare un’immagine astratta. Il piacere infinito è il traguardo di un severo descrittivismo. Ciò che è lontano ed è ignoto parte da Recanati, da casa sua, dall’analisi e lo studio degli oggetti e dei luoghi che aveva sempre davanti agli occhi. Il vago è “nella chiusa bottega alla lucerna“, “su la piazzuola in frotta”: è quella siepe.
Calvino tutto questo lo sa perché lui quando una storia la scrive, la inizia proprio da una descrizione di un oggetto o di un luogo che via via che viene descritto finisce però per essere solo un appendice. La trama e la vita del racconto è quella che gira attorno all’oggetto. “Il rapporto tra quell’argomento determinato e tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere. È un’ossessione divorante, distruggitrice, che basta a bloccarmi. Per combatterla, cerco di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in campi ancor più limitati, poi a suddividerli ancora, e così via. E allora mi prende un’altra vertigine, quella del dettaglio del dettaglio del dettaglio, vengo risucchiato dall’infinitesimo, dall’infinitamente piccolo, come prima mi disperdevo nell’infinitamente vasto.)”.
In questa geometria delle sofferenze, in cui l’autore genovese cerca di venire a capo sano e salvo nelle sue stesse raccolte, le ekphrasis delle opere di Gnoli procedono co questo stampo geometrico.
Il guanciale, è: “la sola forma al mondo che unisca la stabilità del quadrato (o meglio del rettangolo) e la pienezza della sfera (o comunque di un corpo convesso e curvo in tutta la sua superficie)”. Il movimento e la stasi, il segno del passaggio di vite sulle cose: l’orma di una presenza. «L’assenza che però non appare come negazione della presenza, anzi è proprio quest’ultima a essere l’effetto di un’assenza generalizzata ».
La serie Beds di Gnoli è l’esatta traduzione di quanto appena detto, l’artista dipinge dei letti fatti e sfatti, dettagliandone i contorni, le fantasie delle coperte, le grinze sui cuscini. Chi sia passato di lì è irrilevante, quello che conta è l’azione che c’e stato, questo vuoto continuo, questa assenza che vuole essere colmata da chi guarda, dal visitatore. L’immaginazione del fruitore è fondamentale, forma la presenza laddove non ci viene rappresentata. Gnoli dipinge continuamente una fantasia partendo dal quotidiano, la stessa teoria che Calvino in una intervista della Rai diceva essere prerogativa dell’uomo moderno per contrapporsi alla routine bisogna usare l’immaginazione.
Titta da Girolamo nelle Conseguenze dell’amore lo diceva in continuazione, per lui la cosa peggiore del mondo era non avere immaginazione. Perché la vita, già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa in mancanza di fantasia uno spettacolo mortale. Tuttavia, lo scrittore genovese sostiene la necessità di non cadere nella trappola dell’eterna ricerca di estraniazione, perché “l’immaginazione al potere” può creare dei danni al singolo individuo occultando le sue abitudini, i compiti, il lavoro, la famiglia, gli amici. Una astrazione possibile solo attraverso un lento labor limae complesso, corretto e sistemato, capace di generare un linguaggio che non sia approssimativo, ma preciso ed esatto.
Calvino era terrorizzato dall’uso improprio della parola nel comunicazione, non solo riferendosi agli altri, anzi, soprattutto a se stesso. Se durante una conversazione spesso capita di non badare troppo all’uso della lingua, in scrittura tutto ciò non avviene. Tanto si può scrivere, quanto si può cancellare e modificare.
Calvino propone come lotta alla “peste del linguaggio”, ossia alla uniformità che appiattisce tutto proprio la letteratura e l’arte capaci di contrastare questa “malattia” attraverso la rappresentazione definita.
Il realismo immaginario è qui che affonda le sue radici, partendo dalla vita di tutti i giorni per arrivare alla realtà sensibile, due mondi che coesistono. Entrambi gli artisti, Gnoli e Calvino, possiedono quello di cui parlano, dipingono o descrivono a tal punto che possono ricostruirlo all’infinito.